There’s nothing here,
but that’s okay
(2023 - ongoing)
Cronaca di un viaggio suburbano
Lulù Withheld - (Luglio, 2024)
Questo viaggio è stato come essere sdraiata in macchina, sui sedili posteriori, e guardare le luci dei fari delle altre auto proiettate sul soffitto del tettuccio trapassato da puntine arrugginite. È stato come sentire l’odore dolente della campagna entrare nell’abitacolo, e abbandonare algide vestigia su balle di fieno e sterco. È stato come avere freddo e sentire addosso una giacca di pelle non mia, una giacca pesante da uomo. Rannicchiarsi anche sotto l’odore di quella pelle. È stato come sentirsi una ladra di immagini, come quasi sempre si può sentire chi guarda. Salvo poi essere e sentirsi cullata da quelle luci veloci sopra di me e da quella pelle non mia e da quelle immagini di un giorno che è stato o sarà.
E, infine, sentire le lacrime bagnare le guance e la giacca senza volerlo. Le lacrime. Nel silenzio che segue ho messo in play il vecchio lettore CD. La voce di Neil Halstead squarcia come un sussurro l’aria con quel suo “Alison, I'm lost”, la sua voce comprime ogni atomo del mio pensiero mentre le gambe mi si incollano sudate sul tessuto a quadri del sedile di questa
Golf azzurra targata SI, Siena.
Sì.
E poi da qui, da dove sono, vedere fare giorno dal finestrino.
Così guardo fuori.
Le immagini che scorrono sembrano provini di un film anni ’90, cartoline perfettamente a fuoco per non dimenticare nulla. Ogni cosa, a guardar bene, resta visibile. Ogni foglia, ogni stelo, ogni lampione, ogni madonna, ogni scritta. You’re always on my mind, leggo su un muro sempre da quel mio finestrino e un brivido mi ghiaccia il pensiero e mi riporta esattamente lì.
Lì potrebbe essere una provincia lontana e crudele e seducente. La mia provincia, la sua provincia. Del Sud, del Nord o di un’isola, poco importa. Dentro ci sono scampoli di Italia, di religione, di ateismo, la lentezza, gli abbandoni, la nostalgia, la bellezza, i momenti perduti come perduti angoli di mondo e di universo e poi l’acqua, l’azzurro dell’acqua che è un riflesso e quel verde che ricorda certi trifogli nel sottobosco e quel rosa intatto del cielo lattiginoso e poi frammenti di edifici e pezzi di automobili, di altre vite, di altro tempo in azzurro chiaro, alcune cose, come una speranza.
Resta la sensazione di essere arrivati in ritardo, fuori sync, con ciò che accade nell’immagine e con ciò che accade fuori dall’immagine. Resta addosso la sensazione di essersi dunque persi qualcosa, un evento, un accadimento, un’emozione.
La sensazione di una mancanza, di un abbandono. Di essere stati attraversati, e lasciati. Sapore di lacrime, anche.
C’è un secchio rosso caduto per terra su una moquette erba sintetica, che un tempo magari è stata verde prato. Un bidone, azzurro slavato, colmo di fiori recisi forse di plastica come fuori da un cimitero. Un camper parcheggiato all’ombra, ma senza sole, di un grande albero. Vecchie sedie come posti in prima fila, ma isolate e rigorosamente vuote.
La natura che si riappropria di certi antropogenici reperti. Con assoluta naturalezza.
Guardo ancora.
Campetti senza rete. Cavallucci marini giocattolo dimenticati in inverno. Statue della Libertà con fiaccole a corrente alternata, staccata. Strade che conducono alla fine. Un molo, alla fine.
Malinconia, disagio, solitudine, assenza. Tòpoi che ricorrono, che rincorro con lo sguardo.
Una presenza che c’era ed era e poi non c’è più, come un sentimento che prima c’era ed era e poi non c’è più. Come nei giorni di Tramontana quando il suono delle campane della chiesa viene portato dal vento e poi improvvisamente quel suono non c’è più. Come sentire il profumo di quella rosa nascosta nel giardino e poi un attimo dopo non sentirlo più.
È questa, quella di Marco Frattaruolo, una fotografia che impegna i sensi che li allerta e che ti fa chiedere infine “Cosa si nasconde dietro tutto questo?”. Ma è come se l’autore ci mostrasse già il retro delle immagini, in una scomposizione tra la rappresentazione quasi grafica della realtà e la realtà, tra il pieno che è stato in un tempo non compreso dalla fotografia e il vuoto lasciato dall’abbandono che impregna la fotografia.
Il decoro delle facciate che si somma al retro del non contemplato. Decadenza, leggerezza, calma, incanto e poi il tempo che ci sfugge e che sfugge fuori dall’inquadratura. Un viaggio malinconico il suo, infinito, solitario, ma anche comunitario.
Come se l’individualità dell’autore potesse entrare in compenetrazione, fondendosi, con il paesaggio, che egli percorre e guarda e, dunque, rappresenta.
È la fine di questo viaggio per me, prima che faccia di nuovo buio. Così accosto l’auto in un parcheggio assolato e mi fermo in un Motel, uno qualsiasi. La scritta campeggia in alto. Mi sembrano tutte uguali, quelle scritte. E forse lo sono. Ma c’è del fascino anche in questo, in questo essere in un luogo dell’immaginario collettivo che può diventare un luogo altro. Un luogo della mente. Luoghi come quelli raccontati da Marco Polo al cospetto del Kublai Khan ne Le città invisibili di Calvino.
Luoghi che sono quindi essenzialmente luoghi emotivi. I Loci Amoeni, in un’accezione un po’ più personale in questo caso.
Lo spazio, nelle opere di Marco, è e diventa soggetto nonché evento finale. Non è più, non è mai, mero sfondo o paesaggio. Lo spazio diventa la storia diventa il tempo.
Le uniche persone che ho intravisto in questo mio viaggio sono Lorenzo, Clelia e Astra. E, ovviamente, Marco, a cui devo la mia gratitudine per avermi concesso di viaggiare nel suo mondo con questo pezzo nelle cuffie a bordo di questa scassatissima Golf, senza aria condizionata.
Con commozione.
Love & Unity.